STUDIO LIVE
Dal diario di Alberto Piccinni
Quest’anno la mia personale esperienza nel deserto si è prolungata oltre la permanenza del gruppo dei volontari dell’associazione giunto fino ai campi per mantenere vivo quel canale di scambio e di relazione con i bambini e le famiglie che seguiamo da diversi anni. Avevo bisogno di tempo per capire dall’interno alcune dinamiche sociali e comportamentali dei rifugiati e cercare le persone giuste e intraprendenti su cui fare affidamento per intraprendere nuovi progetti. Dalla nostra prospettiva immaginiamo il deserto come un luogo della mente, in cui l’assenza di un paesaggio strutturato può aiutare la meditazione o qualche pratica indirizzata a riallacciare i rapporti tra il corpo, la mente e il controllo della propria vita. Immaginiamo sempre le esperienze esotiche come qualcosa di catartico e suggestivo come fossero delle oasi di verità ed equilibrio nelle quali ricaricarsi per affrontare le ingiustizie e le avversità della routine in ufficio o nel contesto sociale avanzato e depravato da cui proveniamo. Debbo dire che trovarsi nel bel mezzo del nulla è una sensazione per lo meno alienante, guardarsi intorno e sapere che c’è un area più grande dell’Europa in cui non esiste altro che sabbia all’inizio ti fa venire voglia di correre e poi ti stanchi, ti fermi e contempli la tua piccolezza. Visto così sembra tutto molto suggestivo, ma se potessimo inoltrarci verso ovest troveremmo il muro della vergogna: una barriera di sabbia e di mine costruita dal Marocco per impedire il ritorno dei rifugiati nel Western Sahara mentre a est si apre l’immensità del deserto, la terra di nessuno al confine tra Algeria, Mali e Mauritania dove i traffici di armi, di droga, di persone e si ramificano a bordo dei pick up. Ci vuole poco a capire che i campi profughi non sono un posto “zen” indicato per ristabilire il proprio equilibrio con la natura e il creato. Il paesaggio è monotono, l’aria colma di sabbia rinsecchisce la pelle e le narici, le mosche si posano con ostinatezza su qualsiasi specchio di pelle scoperto, non ci sono prodotti freschi e genuini da mangiare, quasi tutto il cibo è a lunga conservazione ed è quasi impossibile garantire la catena del freddo, la vita sarebbe difficile per i salutisti e i vegetariani considerando il larghissimo consumo di carne, zucchero, sale e Coca Cola. La coscienza ecologica è praticamente inesistente ed è frequente trovare cumuli di rifiuti incendiati che liberano un fumo scuro e puzzolente. Mi viene in mente la campagna salentina dove neanche per me è raro trovare pneumatici e altri rifiuti in fiamme e il “Progetto Urano”, un’indagine partita dalla Puglia che già negli anni’80 svelò lo smaltimento illecito di rifiuti speciali dal sud Italia al Sahara Occidentale. Ferite di un’Italia di mafie e collusioni del governo che si riaprono proprio in questi giorni in cui viene liberato il presunto omicida di Ilaria Alpi. Il malaffare rappresenta sicuramente un terreno fertile per le connessioni tra territori, oggi come nel passato, e me lo ricorda Brahim per il quale, un ora dopo avermi conosciuto, io ero praticamente diventato “El Puccini mafioso”.
Eppure quasi tutti quelli che vengono nei campi, anche attraverso una prima semplice esperienza di volontariato, ci ritornano. Forse sono amanti del silenzio o dello spettacolo delle stelle di notte, forse vogliono assaporare i pinchitos di cammello o fare il record di thè bevuti in un giorno. Credo però che si tratti di rapporti umani, di relazioni con una famiglia, con un bimbo, con un amico che vogliono rivedere e coccolare. Per quasi tutta la gente che si incontra qui il viaggio nel Sahara rappresenta un appuntamento fisso, annuale, per un motivo o un altro quasi irrinunciabile. Per molti anni i Saharawi hanno rappresentato un terreno facile per la cooperazione dal basso, un rapporto di aiuto diretto quasi da persona a persona ed è così che, attraverso le accoglienze dei bambini, le politiche di cooperazione decentrata dei comuni e delle province europee, l’operato dei cooperanti free-lance, i rifugiati Saharawi hanno creato un vero e proprio sistema di ospitalità degli stranieri anche grazie alla loro cultura moderata, nomade e molto ospitale. Un sistema che è stato minacciato nel 2011 con il sequestro dell’amica cooperante Rossella Urru, indirizzato a minare la sicurezza degli stranieri nei campi profughi e, a seguito del quale, tutto il sistema di sicurezza e di controllo nei campi si è fatto decisamente molto più pesante e vincolante.
Ho passato parte della mia permanenza nella wilaya di Auserd dove ho lavorato con Brahim per capire che tipo di limiti potesse avere il suo lavoro, ho incontrato i musicisti Mahfoud Azman, Mahmoud Bara, Mahfoud Aliyen, Lemrabat Aliyen (figlio di Mahfoud), ho improvvisato con Salek scoprendo che ogni popolo, a latitudini diverse ha il suo Biagino Bleve (Animatore di matrimoni ed eventi di paese). Il resto del mio tempo l’ho trascorso nella wilaya di Boujdour, dove la Ong Sandblast sta cercando di riattivare “Studiolive” uno dei progetti più ambiziosi e coraggiosi del deserto: la realizzazione di una sala di registrazione professionale all’interno dei campi. L’obiezione più comune al quale devo spesso rispondere è “Ma a cosa serve uno studio in un contesto di emergenza sanitaria, alimentare e sociale?”. La risposta può intuirla chi conosce un po’ la condizione dei rifugiati. Strappati dalla loro terra, dalla loro cultura basata sostanzialmente sulla trasmissione orale del sapere, i Saharawi hanno così la possibilità di registrare, diffondere e archiviare del materiale sulla loro cultura e la loro arte (radio, musica, poesia, interviste …). Non è un progetto facile. Nessun progetto è facile in un contesto in cui si fa fatica a trovare la motivazione della gente. Sappiamo però che è solo quando una esigenza viene davvero percepita anche dalle persone locali che ci sono i margini per cooperare bene e in maniera efficace. Per quanto possano essere belle e complete le nostre analisi di contesto e di bisogno, se questi bisogni non vengono fatti propri dai diretti interessati, i progetti faranno quasi sempre un buco nell’acqua oltre che nelle tasche dei finanziatori. Nel tempo Studiolive ha cambiato diverse location e responsabili, ha subito furti e perdite di attrezzatura, ha formato giovani fonici, ha creato progetti con il coinvolgimento di bambini e di musicisti. Oggi, a seguito dell’alluvione di ottobre, il progetto ha trovato una nuova location all’interno del Centro dell’Union de Mujeres di Boujdour, la responsabile è una giovane ragazza che parla inglese di nome Shaia. Shaia ha seguito la formazione di Studiolive e i corsi di lingua fatti dagli americani cooperanti freelance che spesso vengono nei campi per insegnare. Il centro rappresenta un catalizzatore di iniziative perché è un posto sicuro, aperto a tutti, con spazi ampi adatti a effettuare meeting e iniziative. All’interno del centro incontriamo prima di tutto la delegazione delle donne responsabili dell’Unione, una organizzazione nata insieme al Polisario per sostenere le donne e il loro importante ruolo nei campi data l’assenza degli uomini all’epoca impegnati al fronte. Qui si svolgono i corsi di formazione di molte ong tra cui Oxfam e Medicos del mundo. È il posto giusto per incontrare ragazze e ragazzi che rappresentano la generazione dinamica dei Saharawi ma sicuramente anche quella più fragile e disillusa. Mi convinco quindi che è il luogo adatto a ospitare lo studio che ha bisogno di energie serie e fresche per ripartire.
Il mio compito è quello di aiutare Shaia ad allestire la sala, montare la porta di ingresso, aprire una finestra interna tra la sala di registrazione e quella di regia e preparare il report perché il cooperante della prossima missione sappia cosa portare e come muoversi. Ad aiutarmi Massimo, Belen, Mauro e le maestranze saharawi Boumeddien e Salek.
I lavori mi sembrano venuti bene anche se io sono sempre stato una persona che pretende troppo, vorrei i lavori fatti bene, una società senza malaffare, il rispetto dell’ambiente e vorrei che tutti mettessero nelle cose la stessa passione che ci metto io insomma sono un rompicoglioni. Fortuna che basta poco per addolcirmi, un thè, un po’ di fantasie sulla possibilità di portare i miei amici a registrare nel deserto e la consapevolezza che il nostro lavoro possa davvero portare dei frutti. A fine giornata mi ricordo dell’intervista che ho fatto qualche anno fa a Rossana Berini, cooperante free-lance che ha scelto di vivere definitivamente nell’hammada. Lei mi confessa che, nonostante le priorità sanitarie, ciò che le fa più paura è la prospettiva dei giovani che vivono ogni giorno senza riuscire a dare risposte per il proprio futuro. Ecco che la musica, l'arte e la cultura non sono prioritarie in un contesto precario e di emergenza ma è proprio grazie a loro che si riesce ad andare oltre le necessità del quotidiano, a pensare attraverso una prospettiva piú ampia, a immaginare un futuro differente.