A CASA DI MAGALLANO
Dal diario di Alberto Piccinni
Proprio mentre eravamo nella jaima di Brahim Maguey nella wylaya di Auserd, (Campi profughi nei pressi di Tindouf, Algeria), Mauro mi ricorda che già nel 2009, a seguito della nostra prima esperienza nei campi con Yoda e Regione Emilia Romagna, avevamo organizzato un incontro nella Libreria Idrusa di Alessano per presentare ai popoli del Capo di Leuca la strampalata situazione dei rifugiati Saharawi e il disagio della disabilità all’interno dei campi profughi del deserto. Sia io che Fulvio avevamo appena finito l’università e non volevamo solo trattare la solita solfa dell’illegittimità dell’occupazione marocchina, delle torture, del muro di mine e dei giochi geopolitici che hanno costretto i Saharawi a quarant’anni di esilio nel deserto con la beffa della dipendenza dagli aiuti umanitari. Come quando si scava nei conflitti della colonizzazione, le faccende diventano complesse e sconfortanti e rischiavano di spaventare i salentini che in quel momento “imparavano a conoscere i Saharawi”. Volevamo dare un taglio diverso e allo stesso tempo scendere più a fondo, parlare dei problemi quotidiani dei rifugiati, della cultura e della psicologia di un popolo dall’identità rarefatta a causa dell’assenza del paesaggio e delle sue risorse, dell’impossibilità di coltivare la propria terra e le proprie passioni in un limbo in cui resistere nella precarietà è l’imperativo e usare il cemento al posto della sabbia è già un segno di resa, come dire di aver accettato di stabilirsi nel deserto anziché lottare per il ritorno nel Sahara Occidentale.
C’era in noi la consapevolezza che creare connessioni tra territori avrebbe aiutato a superare i pregiudizi e la logica della mera beneficienza ma non avevamo ancora messo le mani in pasta. I bambini disabili del progetto di accoglienza sarebbero arrivati in Italia solo dopo qualche tempo ma già in quell’occasione con noi c’era un ospite musicale: Francois Cambuzat, un francese nato in Cambogia con sangue algerino, un caro amico che da anni sperimenta gli incastri tra le graffianti chitarre del noise rock con tempi e scale dell’altra sponda del Mediterraneo. Insomma Mauro mi aiuta a capire che quello che sto facendo in fondo è sempre lo stesso, mischiare persone ed elementi sul piano umano, sociale e musicale.
Sono passati sette anni da quell’esperienza e siamo nei campi con una missione coordinata direttamente da noi insieme a un gruppo di medici, musicisti e volontari dalla Puglia occupandoci del sostegno sanitario ai bambini con disabilità e malattie e di Desert Session, un progetto musicale che mette in relazione musicisti saharawi e musicisti europei.
Come ci spiega il Maguey, la sua tenda è uno spazio provvisorio perché lui, come si direbbe nel mio paese, “si sta sistemando”, ha messo su famiglia con Rabab e la piccola Aisha e si è “alzato le case” e cioè ha ampliato la casetta di sabbia che si trovava vicino alla jaima della famiglia della moglie come fanno per tradizione le coppie appena dopo il matrimonio.
Brahim ha un lavoro autonomo, è riuscito a crearsi un mercato offrendo servizi musicali più vari, dj o band dal vivo per la boda (il matrimonio danzereccio dei berberi), la fornitura dell’amplificazione per conferenze, concerti ed eventi pubblici e inoltre ormai fa parte dei nostri collaboratori stabili svolgendo il doppio ruolo di accompagnatore dei bambini e di musicista nella band di Desert Session. Ci chiede di Tricase e della “esquina caliente”, l’angolo che al Villaggio Arcobaleno avevamo dedicato al thè e alle chiacchiere notturne. Sono particolarmente elettrizzato dal suo mondo, lui è un ottimo ponte che mi permetterà di capire da vicino come e quale musica ascolta e balla la gente. Prima di arrivare alla musica però bisogna pensare agli speakers, sono davvero malridotti ma pensando alle notti passate ad ascoltare le registrazioni casalinghe dei Saharawi e dei Mauritani realizzo che i tweeter sfondati e la voce costantemente in picco sono parte del desert sound che in alta fedeltà risulterebbe sicuramente più freddo e meno sofferto. Ad ogni modo, sempre con accrocchi e saldature improbabili, montiamo i nuovi tweeter che gli ho portato dall’Italia. Mi spiega che gli si bruciano sempre e lui vuole comprarne una grande fornitura in Europa così può sostituirli tutte le volte. Gli spiego che sarebbe meglio avere un impianto in cui la potenza di amplificazione è bilanciata a quella delle casse, usarlo nei limiti dei db e si evita di sostituire i tweeter ogni due settimane. Mi guarda con una espressione come a dire “ Lo so hai ragione, magari si potesse fare così, qui funziona diversamente”. Ecco che si presenta ancora una volta l’aspetto più critico di chi coopera in contesti di precarietà ed emergenza: la difficoltà nel dare continuità, manutenzione, costanza e l’adeguata attenzione alle azioni, agli strumenti e alle persone. Brahim mi piace perché è uno dei pochi Saharawi a riconoscere anche i limiti del suo popolo e ironicamente mi dice con il suo spagnolo cubano “Aquì todos son maestros! … Basta che compri una macchina e sei meccanico, basta avere delle casse per essere fonico. Noi siamo così, smontiamo le cose e facciamo esperimenti per farle funzionare alla meglio”. Un po’ è l’atteggiamento che io avevo da bambino: quando non funzionava un giocattolo o un apparecchio elettrico, lo aprivo anche se non ne capivo assolutamente niente e cercavo di accrocchiare una soluzione immediata seppur precaria e difettosa. Le sue vecchie JBL sono sopravvissute all’alluvione di ottobre ma, a giudicare dalla sabbia da cui sono ricoperte e dalle saldature interne, sembrano venire direttamente dagli anni del grande esodo in cui migliaia di Saharawi sono stati costretti a percorrere circa 2000 km a piedi o a bordo dei dromedari per rifugiarsi nel deserto dell’hammada a seguito dell’invasione marocchina avvenuta a suon di bombe e di napalm. Le cose e le persone nel deserto invecchiano prima perché sono costantemente esposte al sole e al caldo e a un continuo processo di sabbiatura a causa del forte vento, senza parlare dell’attività fisica e sportiva quasi inesistente e dell’abitudine di sedersi, mangiare e vivere praticamente per terra.
Ascoltando Brahim mentre parla con i suoi amici, mi accorgo di comprendere molte più parole di quanto pensassi pur non avendo mai studiato l’arabo. Nella fluidità del discorso, mi accorgo che molte parole spagnole si amalgamano con l’Hassanya, il dialetto arabo parlato dai Saharawi e dalle popolazioni berbere della Mauritania. Il caso di Brahim è comune a molti Saharawi che hanno studiato per anni a Cuba. Ritornando nei campi, i “cubarawi” hanno portato con loro un po’ di lingua e di cultura cubana che si impasta con la calda sabbia del deserto dell’hammada. Quarant’anni di isolamento, di rimesse economiche e culturali degli emigranti, di accoglienze e di studio all’estero, di aiuti umanitari e di cooperazione hanno portato anche alla formazione di una lingua ibrida in cui si mischiano l’arabo, i dialetti berberi, il catalano e il cubano, il francese, l’inglese e le parole internazionali che il mercato globale ha inserito ormai in qualsiasi contesto anche quello più sperduto. Ecco che nella torrenzialità della lingua riesco a captare parole come Naranja (Arancia), Boutique (negozio), mismo (stesso), internet, windows, coke. Ad ogni modo ciò che letteralmente mi eccita è quando incontro delle curiose connessioni con il mio dialetto come nel caso della parola “Maccarruni” o della parola “gatto” che in arabo classico sarebbe “qat” ma in Hassanya è perfettamente uguale al dialetto salentino: Musc(iu).
Poco dopo ci raggiungono El Ouali, un giovane tastierista che porta il nome del più famoso tra i martiri della causa Saharawi, e Lemrabat, il figlio del “famoso” cantante cieco Mahfoud Aliyen. Brahim gli ha detto che ho dell’attrezzatura audio e loro vogliono registrare qualche pezzo da presentare per un concorso in Algeria. Ci mettiamo al lavoro: uso il mio provvidenziale handy recorder per allestire un piccolo studio nella Jaima di Brahim, senza particolari problemi visto che la tastiera ha già impostati suoni di basso, chitarra e percussioni quindi mi resta solo riprendere la voce acerba di Lemrabat. Dopo questi anni di conoscenza musicale e personale con i musicisti saharawi ho capito che lo scambio con loro non solo ci permette di scoprire un mondo musicale in cui scale, metodi, gusti e tecniche sono differenti dai nostri standard ma ci avvicina a una attitudine diversa anche nei confronti dell’approccio e della performance. A una scarsissima conoscenza degli aspetti legati alla tecnologia, ai software, al suono e alla sua qualità, corrisponde una straordinaria capacità di esecuzione e di improvvisazione per cui quando si registra una canzone è quasi sempre buona la prima. Un fattore non da poco, considerato il fatto che in occidente il rapporto con la musica suonata si fa sempre più distaccato, sono i computer a fare la maggior parte del lavoro e il musicista si abitua sempre di più a suonare parti di canzone in maniera separata più che eseguire i brani completi in presa diretta. Non mi stupisco. Frequento i bambini Saharawi da molto tempo e non ne esiste uno che non abbia spiccate attitudini per la musica e la danza. Girando per le wilaya non è raro incontrare gruppetti di bambini che improvvisano percuotendo qualsiasi tipo di cianfrusaglia. Anche in questo viaggio, ne incontro tanti, alcuni sono veri e propri talenti come Mullah che, a sette anni, canta e percuote con maestria e trasporto un tavolino di plastica. La musica è il primo sfogo di chi deve impiegare il tempo, è il modo più semplice di ingannare l’attesa e come in tutte le culture di quell’area svolge molteplici funzioni: di preghiera, di rivendicazione, di intrattenimento e di gioco, cerimoniale, di trasmissione della cultura orale … .
El Ouali e Lemrabat infatti cominciano a registrare senza fermarsi più, 18 canzoni tradizionali e moderne senza che ci fosse la necessità di ripeterne nemmeno una. Finiamo tardi nella notte e io mi sentivo un po’ rintronato da tutti quei suoni e quelle progressioni della tastiera che, a mio parere, appiattiscono le dinamiche e la sinuosità della musica. Come mi spiega l’amico compositore Ali Mohammed, già dagli anni’80 gli strumenti elettrici e digitali hanno preso il posto di quelli tradizionali e questo ha causato una totale rivoluzione per la produzione musicale. Ha portato alla creazione del pop Saharawi, alla contaminazione con gli stili internazionali e, da un certo punto di vista, alla perdita di molte peculiarità stilistiche e ritmiche.
Il tema della musica e degli strumenti musicali però, ci può servire a capire come un popolo sradicato dal suo territorio, dal suo paesaggio e dalle sue risorse rischia non solo di sgretolare la sua economia e la sua struttura sociale ma anche la sua cultura e la sua identità. Oggi nei campi è molto difficile trovare un tbal (percussione suonata dalle donne), o il tidinit (strumento a corda antenato della chitarra). Quelli che si trovano sono importati dalla Mauritania che condivide la cultura con il Sahara e dove la musica è ancora un elemento vivo e dinamico della società. Mahfoud Azman, uno dei migliori suonatori di tidinit del Sahara, ci confessa che lui ha imparato a suonare attraverso i video dei mauritani in Tv. Si fa presto a rendersi conto dello squarcio nella storia di questo popolo che da un momento all’altro ha perso il suo artigianato perché non c’erano più le materie prime, ha perso il suo expertise, ha perso la sua cucina sostituendola con gli aiuti umanitari, ha perso qualsiasi tipo di espressione peculiare legata al territorio e alla sua cultura. Immaginate un Salento senza pajare e muretti a secco, senza frise e grano, senza ulivi e olio, senza artigiani … senza il mare … avremmo ancora la forza di cantare la pizzica? Ai Saharawi va dato il grande merito di aver lottato in tutti questi anni per conservare la loro cultura pur non avendo alcun elemento tangibile su cui fare riferimento.
Questo sfilacciamento della propria identità, condizione caratteristica dello stato di rifugiato, ha generato una perdita di prospettiva, di fiducia e di visione del futuro tanto da riuscire a considerare solo soluzioni e risultati immediati senza avere la pazienza di ragionare su un progetto, di svilupparlo al meglio e di poterne godere i frutti. Questi aspetti non sono solo considerazioni antropologiche e culturali ma sono fattori a cui dare grandissima importanza nelle strategie di cooperazione e di sostegno. Dal punto di vista medico per esempio si fa molta difficoltà a trasmettere l’importanza di una terapia di medio o lungo periodo che sia farmacologica o riabilitativa proprio perché non se ne possono riscontrare gli effetti immediati mentre hanno grande successo farmaci antidolorifici e antinfiammatori il cui risultato è immediato benché solo palliativo.
Proprio secondo questa logica El Ouali e Lemrabat appena finita la registrazione mi chiedono le tracce senza riuscire a capire che, per un lavoro fatto bene, io ho bisogno di mixare le tracce, ripulirle effettuare qualche sovrincisione e farne un master. Cerco di spiegare che anche noi alla vasca una volta avevamo tentato di fare un disco in 3D, un giorno per comporlo, uno per registrarlo e l’altro per mixarlo ma si trattava di una battuta. Niente da fare, il concorso in Algeria non può aspettare che io ritorni in Italia per tutti questi processi e, ob torto collo, mi sacrifico in una prova arrangiata di mixaggio notturno senza il mio computer e senza il mio software. Finisco quasi alle tre della notte senza essere soddisfatto del lavoro. Sono stremato ma loro restano sempre accanto a me a preparare il thè e a insegnarmi qualche espressione “sporca” in Hassanya. Ancora una volta aveva vinto la logica dell’emergenza che da un lato ti impedisce di sognare e di immaginare prospettive differenti, dall’altro ti costringe a usare tutta la tua creatività nella ricerca di soluzioni improvvisate ed estemporanee e a condividere con gli altri un destino che non può essere rimandato.